Sul Filo dell’Arte
E' da diversi anni che sento la necessità di evidenziare con una mostra la parte più nascosta e più intima del lavoro di un artista, la dimensione del fare come compimento di un pensiero, come susseguirsi di gesti ripetitivi e pazienti capaci di misurare un tempo diverso da quello che normalmente siamo abituati a trascorrere o a subire. Parlo di un'idea di tempo dove i minuti che scorrono non servono a misurare la quantità delle azioni svolte, ma la qualità del gesto, inteso come scoperta ed esternazione di una dimensione interiore. Una sorta di preghiera, non importa se religiosa o laica, capace di decongestionare sia il corpo che la mente. Le mura che racchiudono Offida appaiono a chi arriva come un largo contenitore che si sviluppa verso l'alto e, simbolicamente, suggeriscono un invito alla riflessione, alla ricerca di una dimensione interiore.
Scoprire il Museo del Merletto costituisce un'ulteriore passo avanti in questo senso, perché si tratta di un'esperienza del tutto particolare, portata avanti da persone capaci di valorizzare la propria attività e comprenderne la portata. Un esempio di come i giovani possano formulare, dal recupero delle proprie tradizioni e delle proprie radici, una nuova soluzione per il futuro, una compensazione allo stress procurato dall'era postmoderna, postindustriale, postcapitalista, postconcettuale, postumana e così via. Dire che qualcosa viene dopo, infatti, non attribuisce requisiti e connotati specifici, rende l'idea anzi di qualcosa che si sviluppa in maniera informe e selvaggia. Ed è proprio questo senso di confusione e insicurezza che sta rendendo debole il nostro pensiero e la nostra fiducia nella realizzazione di obiettivi specifici. Produciamo considerazioni che non evolvono, azioni accennate, lasciate a metà, distratte: siamo arrivati alla catena di montaggio del pensiero, interrotto e strappato dal suo regolare svolgimento per questioni di ragionevolezza e funzionalità. Siamo una quantità di gesti che si sommano senza evidenziare un risultato capace di renderne la misura e la forma. Il frammento di un processo è stato ciò che ripetitivamente abbiamo visto e mostrato, rilevando un disagio effettivo. La necessità è quella di recuperare la regolarità di un flusso, di un ritmo fatto di pause e movimenti ben dosati, di pensieri capaci di seguire l'andamento del nostro respiro, di raggiungere una conclusione. Penso a questo punto ai magici movimenti delle dita delle merlettaie di Offida, rimarrei a guardarle per giorni interi. La musica dei loro fuselli mi ricorda i ritmi afro-cubani, la nuova dimensione fluida che da tempo stiamo cercando. Ed è proprio legata al bisogno di ritrovare una centralità, una stabilità, la questione di rendere abili i nostri arti, le nostre mani, tanto quanto il nostro cervello. Non parlo di esercizio fisico fine a se stesso, ma della capacità di costruire qualcosa che segua formalmente il nostro movimento mentale. E se questo vale per le persone in genere, tanto più per gli artisti, anche per i più giovani. Molti di loro, ora, sentono il bisogno di percorrere una nuova strada del fare, che si fonde al pensiero e diventa a volte gesto meditativo, a volte ludico e comunque sempre liberatorio di un'energia vitale che non si può palesare completamente rimanendo ad un livello di comunicazione raffreddato, ad un livello quasi esclusivamente mentale. Per questo mi chiedo se sia giusto continuare a trascendere il livello puramente pragmatico dell'arte all'interno delle sue rappresentazioni e delle sue interpretazioni. Il processo di graduale smaterializzazione che investe tutte le modalità di comunicazione, compresa l'arte, sta privando gli individui e la società di una parte fondamentale, di una concretezza dell'esistere, di piccole tappe da raggiungere mettendo alla prova la nostra resistenza e la nostra abilità fisica. Questo interrogativo si sta ponendo violentemente all'attenzione nel mondo dell'arte in un momento in cui alcune correnti stanno arrivando al collasso delle proprie potenzialità. La ricerca potrebbe arrestarsi. Tuttavia l'arbitrarietà insita nel percorrere binari prestabiliti è il vero punto di partenza per avviare una nuova riflessione. Il singolo individuo e la collettività cosa si aspettano oggi dall'arte, da quel rituale incastro di prefigurazioni che focalizza, di epoca in epoca, bisogni e aspettative, denuncie e disagi? Quindi più che chiedersi cosa sia l'arte, ci si dovrebbe chiedere se esiste l'arte, nella sua accezione di termine astratto, generalizzante, derivante da quello che un tempo veniva definito giudizio a priori. Di sicuro sappiamo solo che l'essere umano, fin dalle sue lontanissime origini, ha sentito il bisogno di rappresentare i propri pensieri in maniera astratta, attraverso il linguaggio prima verbale e poi scritto, e in maniera concreta attraverso un sistema differente che in seguito sarebbe stato definito arte. La necessità di comunicare con se stesso e con gli altri lo ha portato a creare segnali, figure e situazioni frutto di un'intuizione sintetica che tentava di interpretare la complessità, il caos. E' così che ancora oggi dovrebbe essere considerata un'opera d'arte: la costruzione di un sistema capace di trasmettere nuclei compatti di informazioni e sensazioni, cellule che costituiscono un organismo variabile e in evoluzione grazie ai diversi tipi di relazione che riesce ad instaurare con il singolo fruitore. Per questo ritengo che sia sicuramente più produttivo affrontare il discorso focalizzando dei singoli artisti e delle singole opere, intesi come soggetti di una possibile esperienza estetica. Nell'attuale panorama internazionale dell'arte contemporanea si sta riscoprendo l'importanza dell'esecuzione manuale del lavoro, dopo decenni di sperimentazione intorno al concetto di riproduzione seriale e meccanica introdotto da Andy Warhol. Quello che si sta considerando infatti è che esiste un'intelligenza del fare oltre che del pensare. Un atteggiamento questo che privilegia la riflessione, la meditazione, in altre parole l'elaborazione profonda di concetti all'interno del proprio organismo e del proprio pensiero. Il gesto ripetitivo, ma non meccanico, è legato alla maestria di una tecnica che si acquisisce con lentezza e con molto esercizio. L'idea iniziale, o intuizione, è infatti capace di alimentare esclusivamente il livello cerebrale se non viene elaborata attraverso un processo fattuale, concreto. La dimensione creativa, invece, è un fenomeno che investe l'intera sfera umana, la parte intellettiva così come la parte fisica. La recente teoria filosofica dell' io-corporeo ha rappresentato la necessità di riportare alla luce una fisicità intelligente attraverso la quale l'essere umano è in grado di conoscere, di comunicare e di creare.
Questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a costruire un progetto d'arte contemporanea connesso alla tradizione del Merletto a Tombolo di Offida, unitamente al desiderio di accrescere l'esperienza e la consapevolezza del lavoro manuale creativo inteso come scambio osmotico tra arte e artigianato, settori contigui che però difficilmente hanno reali occasioni di incontro. Riuscire a realizzare i merletti a tombolo significa aderire ad una disciplina fatta di esercizio quotidiano, abilità, creatività. Rigore e libertà si alternano dando vita ad un oggetto prezioso che richiede virtuosismo e stile.
Per alcuni artisti l'approccio iniziale al proprio lavoro è simile, è lo scopo ad essere differente. Per l'artista infatti l'obiettivo fondamentale consiste nel trasmettere idee, sensazioni ed esperienze, nel creare un senso logico laterale alla realtà, che anzi il più delle volte viene volutamente fraintesa e deformata, forzata verso un altro significato.
Luigi Caiffa parte dalla fotografia digitale per realizzare opere capaci di evidenziare sia processi psicologici che processi chimici. Solitamente abbina all'immagine di un volto quella di un fiore, dando spazio a relazioni introspettive capaci di portare allo scoperto la dimensione emotiva degli individui. La stessa cosa avviene quando si tratta di volti di santi, sottolineando la sensualità della tradizione estetica cattolica legata al periodo manierista e barocco. Per quanto riguarda la tecnica, invece, i successivi strati di zucchero, pittura e collanti rendono materiche le sue opere e ne evidenziano sfumature e rilievi grazie all'effetto cristallizzante dei materiali impiegati. Il trascorrere del tempo, una sorta di stagionatura, servirà ad ossidare i colori tanto da renderli trasparenti, omogenei e, in qualche modo, antichi.
Giovanni Ercoli realizza delle tele attraverso un minuzioso impiego di matita, acqua e colla. Il colore che deriva risulta essere un tutt'uno con la forma. Anche in questo caso si tratta di un'esecuzione lenta che permette all'artista di esternare delle forme simili ad archetipi del pensiero, ad organi del corpo o a paesaggi ideali. Le rotondità spesso si contrappongono agli spigoli e alle linee rette dando l'impressione che la stessa vita umana sia una dialettica tra il pensare e il fare. La dimensione fortemente onirica che scaturisce dal suo lavoro denota un marcato atteggiamento di autoascolto, una psicanalisi fatta per immagini, ossessiva o liberatoria a seconda dello stato d'animo di chi la osserva. L'artista infatti non entra in merito al significato ultimo delle sue opere, perché certe ragioni profonde possono essere spiegate soltanto attraverso la loro evidenza.
Kérozen ha eseguito, per circa tre anni, la disciplina del lavoro ad uncinetto per realizzare le sue opere. Per lo più si tratta di opere fotografiche incorniciate ad uncinetto, usando lane colorate, come da pittore usa i colori e i pennelli. Un lavoro difficile da presentare al pubblico, che denota una sensibilità particolare e la volontà di volersi mettere alla prova. Ogni riquadro, infatti, rappresenta un lungo tempo di riflessione e l'acquisizione profonda dell'immagine contenuta nella foto, anche quando si tratta di frammenti del ritratto fotografico del suo corpo trasformati in un abito pronto da indossare. In questo modo il pensiero, che ognuno di noi si raffigura interno e nascosto, viene allo scoperto e costituisce l'involucro esterno del corpo, il confine tra l'individuo e la società, un modo di comunicare diretto e impietoso.
Hannu Palosuo incastra la sua ripetizione ossessiva all'interno delle possibilità di un colore azzurro costante pur nel dispiegamento delle sue sfumature. Parallelamente concentra sempre più la sua attenzione sul soggetto della sedia, interpretata singolarmente o in serie, suggerendo un gioco di ombre, oppure immagini assolute e metafisiche sospese in un ambiente mentale. Della sua cultura finlandese sono evidenti non solo i toni raffreddati del colore, ma soprattutto l'interesse a tradurre in oggetto la dimensione ambientale ed intellettuale. Il costante uso del monocromo e la ripetizione differente degli stessi soggetti rapresentati lo costringono ad una riflessione profonda che lui riesce a comunicare attraverso una rigida autocircoscrizione sia del metodo che del linguaggio, una sfida che lancia a se stesso con rigore quasi scientifico.
Marco Rabino scandisce le sue tele, tutte rigorosamente della misura di 30 x 30 cm, con immagini di frascami, rami e foglie che avvicinati in sequenza rendono illusionisticamente l'idea del movimento, del vento, del fruscio. Partendo da un atteggiamento di grande sensibilità, l'artista riesce a far vivere allo spettatore la sensazione di transitorietà, se vogliamo di fragilità, propria di ogni essere vivente, partendo proprio dalle forme di vita vegetale. Le foglie al vento sono infatti, per antonomasia, quanto di più sensibile si possa immaginare. Eppure nella costanza di una pittura legata allo studio della minima sfumatura, si legge anche la tenacia insita nel mondo vegetale e la sua scelta di rappresentarlo in maniera attenta e per certi versi implacabile. Proprio come avviene nelle "Affinità elettive " di Goethe, la natura rappresenta lo specchio dei nostri sentimenti.
A/Ruggeri lavora solitamente partendo dal concetto di frammento, piccolissime parti che lui tesse in collages costruendo un'immagine capace oltrepassare i limiti della realtà contingente. Ma anche quando realizza opere pittoriche, come in questo caso, l'idea del frammento, come una lente d'ingrandimento capace di evidenziare particelle nascoste e apparentemente avulse, riemerge camuffata dietro la ripetizione di strisce orizzontali o verticali. Che si tratti di scandire le pareti di una stanza o il vestito di una donna, esse sono in qualche modo costantemente presenti. Stanno lì rigide a dimostrare che tutto può esistere in dimensioni differenti e parallele: un vaso, una persona, un letto, una vita. Guardare oltre e cercare di capire è l'obiettivo del suo fare arte, del suo lungo riflettere e del suo lento produrre.
Luana Trapè sembra tessere il filo di Arianna, la tela di Penelope e quanto dalla tradizione letteraria ci arriva a proposito della simbologia di questo tema. Un modo preciso di tradurre lo scorrere del tempo, nella maggior parte dei casi legato ad una dimensione culturale al femminile. L'avvio delle sue opere è inizialmente mentale, psicanalitico, ma nel corso della loro realizzazione la scelta simbolica del colore si trasforma in sensazione ambientale e chi guarda si sente inglobato dentro le sue piccole stanze abitate da esseri umani e da apparizioni. L'io e l'altro, che vivono dentro di noi, vengono messi allo scoperto, si cerca disperatamente di farli coesistere a livello di coscienza, di conciliare il loro esserci all'interno di un luogo neutrale, nel luogo dell'arte. E attraverso questo processo è possibile far apparire un orizzonte.