Esposizione internazionale del Sempione,
aprile-novembre 1906
Le mostre dell’arte
decorativa italiana e ungherese distrutte dal fuoco
Articolo di Elisa
Ricci
Padiglione delle Arti Decorative Italiane,
prima dell’incendio e dopo la ricostruzione, Expo Milano 1906
La
Mostra delle Arti Decorative era forse quella che più di ogni altra aveva
assunto un'importanza mondiale, sia per fioritura di genialità, sia per le
molteplici e pratiche forme della sua esplicazione, sia perchè appunto una
fra le sezioni rivestenti più ampiamente il carattere internazionale. Ad
essa, oltre l'Italia, hanno concorso l’lnghilterra, la Svizzera, la Germania,
la Turchia, il Giappone, la Norvegia, l’Olanda e l'Ungheria. E quest’ultima,
con l'Italia, era la nazione che aveva fatto lo sforzo maggiore per affermare
più simpaticamente e più largamente alla nostra Esposizione Io sviluppo
raggiunto in breve volgere d’anni nel campo delle arti decorative. E l'Italia
e l’Ungheria sono state le più tremendamente
colpite. Durante la notte, tutti i padiglioni dell’Esposizione, così al Parco
come in Piazza d'Armi, sono soggetti a sorveglianza e ad ispezioni speciali,
che vengono effettuate da guardiani alle dipendenze del Comitato e da una
Commissione ufficiale composta di un funzionario di P. S. e di altro del
Municipio, con guardie, vigili, carabinieri e pompieri. Senza soffermarci sui dettagli di tale
vigilanza diremo che nella notte di venerdì 3 agosto, al tocco, il delegato
mandamentale del Municipio di servizio al Parco procedeva coi suoi dipendenti
ad una ronda attorno l’edificio dell'Arte Decorativa italiana. Afferma il
delegato di non aver avvertito nulla di anormale; anzi, di essere rimasto
completamente rassicurato, che nel padiglione non esisteva pericolo alcuno.
Poco dopo le tre, un’altra ronda. quella dei funzionari di questura, passò
attorno al medesimo edifìcio, accertandosi nuovamente che tutto era
tranquillo. Non è inopportuno ricordare, che il padiglione dell’Arte
Decorativa italiana era sorvegliato, si può dire, permanentemente, almeno
all'esterno, e in modo speciale, pel fatto della vicinanza al padiglione
dogli Orafi, ove sono di servizio costantemente sei agenti di città. E fu
precisamente da questa parte che, quasi per ironia del caso, ebbe origine
l’incendio.
Padiglioni delle Arti Decorative in
costruzione
|
Rifiniture all’interno dei Padiglioni
|
Padiglione delle Arti Decorative ungheresi
prima dell’incendio
|
Padiglione
delle Arti Decorative ricostruita dopo l’incendio nella sezione abiti e
indumenti per signora
|
La mostra dei merletti veneziani della ditta
Jesurum di Venezia
|
|
Stand della Stilista Rosa Genoni di Milano,
prima dell’incendio
|
Stand della Stilista Rosa Genoni di Milano,
dopo l’incendio.
|
Vetrina delle Manifatture Riunite Merletti di Cantù nel
Padiglione
dell’arte decorativa italiana all’Esposizione di Milano
del 1906 e
pubblicata nel supplemento della rivista “Pro Familia”
dedicato
all’evento.
|
Tovagliolo
con bordura in puncetto alla mostra delle Industrie
Femminili Italiane nel Padiglione dell’arte
decorativa italiana
all’Esposizione di Milano
del 1906 pubblicato nel catalogo
dedicato all’evento.
|
Lo sconcerto dopo
l’incendio del 3 agosto 1906 scoppiato alle tre e mezza del mattino
|
Ciò
che rimane dopo due ore di fiamme, 16.000 metri quadrati di poltiglia nera
|
Le macerie
|
L’incendio visto dall’alto di una casa in
Via Cesariano
|
|
L’incendio in prima pagina nella Domenica
del Corriere
“L’Esposizione in
fiamme!” Questo grido ha
corso le vie di Milano
alle quattro antimeridiane
del 3 agosto mentre questo numero andava
in macchina nella
Galleria del Lavoro. Si, purtroppo, il fuoco,
scoppiato in modo
inesplicabile nell’angolo Est al
Parco ha distrutto in
settanta minuti, dalle 3,15
alle 4,55 antimeridiane, tutta la
splendida Arte Decorativa Italiana,
Ungherese e l’Architettura, e
bisogna ringraziare soltanto l'aria
queta e afosa se
il disastro non è
stato maggiore. Incisioni
destinate a questo numero rappresentano una
delle più belle
parti distrutte — il Cortile
Regina Elena e la
Facciata del Palazzo dell’ Architettura.^
|
Le
prime fiamme guizzarono presso la Mostra della Casa Ricordi e furono subito
scorte dai guardiani, dagli agenti e dai vigili, che diedero l’allarme.
Quanti si trovavano sparsi nei viali del Parco accorsero sul luogo del
pericolo e fu una gara lodevole di premure e di sforzi por portare qualche
coefficiente nell’opera di salvataggio. I primi arrivati diedero mano agli
estintori, ma non poterono servirsene perchè era impossibile avvicinare il
fuoco, che progrediva con impeto spaventoso. Successivamente avvertiti,
sopraggiungevano i pompieri del posto di soccorso del Parco, il quale è
presso l’ingresso trionfale dell’ Arena, quelli del posto di Piazza d'Armi e
quelli finalmente della caserma principale di via Ansperto. Il comandante
cav. Goldoni, coi sottocomandanti ing. Pennò, Rossi, Pirola e Pirinoli e il
dott. Campanini del corpo dei pompieri, erano tutti in servizio. Si può dire
che tutti gli attrezzi di cui è dotato il corpo dei pompieri furono
mobilizzati. Furono messe in funzione quattro pompe a vapore, un
carro-tender, un carro Gaspriz, carri di primo soccorso e parecchi
carri-naspo, il carro automobile, scale aeree, ecc. Il servizio d’estinzione
fu disposto e iniziato con la massima rapidità. L’acqua, per fortuna, non
mancò mai un momento. Óltre alle numerose idranti, fu utilizzata la roggia
semi-coperta, che attraversa il Parco e scorre poco lontana dall’edificio
incendiato. Erano conseguentemente torrenti abbondanti e impetuosi quelli che
si riversavano sulle fiamme.
Raramente
fu visto incendio svilupparsi in modo più fulmineo di questo. Si può dire che
venti minuti dopo l’allarme le fiamme avevano avvolto tutte l'edificio,
comprendendo la parte della Mostra Ungherese e decorativa, confinante con il
vialone centrale. Alle quattro, l'incendio aveva raggiunto il suo massimo
sviluppo. Era un unico ammasso di fiamme, che offriva uno spettacolo insieme
terrificante e meraviglioso. Per avere un' idea dell' intensità del calore
emanato dall'incendio, con grande pericolo dei padiglioni circostanti, basti
dire che la bandiera alla sommità della torre Stigler, malgrado la distanza e
l’altezza, avvampò e fu distrutta dal fuoco, insieme al tavolato della
piattaforma; se la torre resistette, ciò fu dovuto alla sua costruzione in
ferro. L’ incendio, cominciato, come abbiamo detto, dalla parte prospiciente
il padiglione degli Orafi, estendendosi da ogni lato, minacciò dopo pochi
istanti l’estremità della galleria di Belle Arti, con la quale la Decorativa
Italiana era in comunicazione, separata solo da un piccolo portico a doppio
colonnato. Il pericolo si presentò terribile. Già le fiamme facevano irruenza
contro quel porticato di passaggio, quando opportuni ordini fecero sì che
tutti i pompieri convergessero i loro sforzi da quella parte. S’ impegnò così
una difesa disperata contro l’elemento distruggitore. Il pensiero che le
fiamme invadessero le Belle Arti suscitò in ogni petto un’ansia, che valse a
infondere maggioro vigoria e coraggio. La preoccupazione era una sola:
sottrarre al fuoco la immensa galleria comprendente nel mezzo il grandioso
Salone dei Festeggiamenti. La lotta per contrastare la corsa alle fiamme è
stata fortunatamente coronata da successo. Il porticato che avrebbe dovuto
condurre le fiamme crollò sotto i colpi delle scuri dei pompieri, proprio
quando aveva cominciato ad avvampare il fragile soffitto. Intanto, nell’
imminenza del pericolo, si provvide a vuotare dei quadri le sale, che al
pericolo stesso erano più vicine. E fu così che quadri grandi e piccoli
furono portati fuori alla rinfusa e accatastati al sicuro, lungo il vialone.
Malgrado che le fiamme fossero state tagliate fuori a tempo, il pericolo
permaneva, causa il calore, che sarebbe bastato da solo a fomentare a
distanza il fuoco. Di fronte a ciò si dovettero man tenere rinfrescate con
getti d’acqua le pareti tanto del Padiglione delle Belle Arti come quello del
Padiglione degli Orafi, pure vicinissimo, ma resistente perché costruito in
muratura. A questo punto, conviene ricordare, che le mostre Decorative Estere
al Parco, tranne l’Ungherese, riunita all’Italiana in un unico padiglione —
quello incendiato — sono comprese in una lunga galleria separata da un largo
viale dall’edificio distrutto. Nessuna comunicazione fra questo e quella: e
fu in conseguenza di ciò che le gallerie estere rimasero immuni, insieme al
padiglione della Previdenza, che fa seguito all’estremità verso l’Arco della
Pace. Alla Decorativa Italiana, poi, era annessa la mostra di Architettura,
della quale si ricorda facevano parte la riproduzione del Duomo, i frammenti
architettonici del famoso tempio e il grande modello del monumento a Vittorio
Emanuele in Roma. Anche questa mostra andò interamente perduta. Lo spettacolo
del disastro era quanto mai rattristante. L’artistica costruzione fu
trasformata in un ammasso di rovine, nere e fumiganti, ingrossate di quando
in quando per il frequente crollare di travi e pareti carbonizzate. Rimasero
qua e là i ferrei scheletri di chioschi e vetrine. Verso lo Decorative Estere
rimasero intatte quattro magnifiche colonne di marmo lucido, avanzo esse pure
di una mostra. Alcuni altri marmi, esposti da questa parte, risentirono così
fortemente degli effetti del calore, da esserne spezzati. La fontana, compresa
nel recinto ove trovavansi le industrie femminili e il Tea-room, formava come
un’oasi in mezzo a tanto squallore.
LA
RICOSTRUZIONE.
Nel
pomeriggio del giorno stesso dell’incendio, la Giunta del Comitato Esecutivo
dell’ Esposizione, riunitasi in seduta plenaria, deliberò di radunare il
Comitato Esecutivo, per approvare l’iniziativa presa di ricostruire
immediatamente la Galleria dell’Arte Decorativa. All’adunanza intervenne il
Sindaco, sen. Ponti, che assicurò l’appoggio suo e dell’amministrazione comunale
all’ impresa. Ed è certo in relazione all’adunanza di cui diamo notizia, che
la Giunta del Comitato ci comunicava questo ordine del giorno: “La Giunta del Comitato Esecutivo, avuto
affidamento del più cordiale appoggio da parte del Comune, ha deliberato
l’immediata ricostruzione di quella galleria di Arte Decorativa che
l’incendio ha distrutto e di spingere i lavori in guisa che la nuova
costruzione sia pronta per la fine di agosto. La Giunta è sicura fin d’ora
del concorso di tutti gli espositori.” Il Comitato Esecutivo venne poi
convocato per sabato mattina ed esso ratificò il deliberato della Giunta .
Il re e la regina inaugurano la nuova mostra
delle Arti Decorative
LE INDUSTRIE
FEMMINILI ITALIANE ALL'ESPOSIZIONE
Articolo di Elisa
Ricci
In
questa grande Mostra di Milano la piccola esposizione delle Industrie
Femminili Italiane mi parve un riposo. Qui sono “le tranquille opere” dell'ago,
della spola, dei fuselli, eseguite da mani affusolato di dame, che
ingannano l'ozio col lavoro leggiadro, che le farà più leggiadre; e da mani
rozzo, incallite di contadine e di operaie, che utilizzano anche lo ore di
riposo nelle tarde veglie invernali, nei giorni passati accanto al letto
dei malati o alle culle dei piccini con questi lavori in cui vediamo
rinascere le virtù artistiche e casalinghe delle nostre nonne, che
ignoravano la macchina. Qui tutto, infatti, è reazione contro la macchina, che
toglie al lavoro ogni personalità e all’ornamento toglie insieme
signorilità, rarità o tanta parte di bellezza. Non contente, infatti, di
studiar gli antichi punti e i vecchi telai e i disegni e i modelli del
tempo andato, noi andiamo ansiosamente cercando le vecchine, che ancora
filano col fuso e la rocca e quelle che tessono nelle camerette a terreno
dei villaggi sperduti; e cerchiamo le erbe donde gli antichi traevano i
colori tenaci e armoniosi per le terzanelle e i damaschi. Ricerche oziose?
Bigotteria più che culto dell'antico, questo sdegnar l’ausilio dei mezzi
meccanici, da cui forse gli antichi avrebbero saputo trarre gran partito
anche nel senso della bellezza? Non so. Certo è che chi dal recinto delle
Industrie Femminili passa alle mostre affini, fatte con intento di pura
speculazione, avverte la differenza grande e tutta a vantaggio del lavoro a
mano più solido o più signorile non solo, ma più artistico nel senso di
cosa in cui si sia trasfusa una personalità, sia pur piccola e semplice; di
cosa creata da un’anima che vigila, invece che da una ruota che gira.
Così,
mentre in questo grande convegno del lavoro tutti gli artefici par che
fissino cogli occhi febbrili avanti nell’avvenire promettitore di nuovi
prodigi, qui par che gli occhi si volgano indietro a interrogare il
passato, per rapirgli il segreto delle sue più riposte e intime bellezze
nei bianchi lini, operati, ricamati, traforati, frangiati, nelle rozze lane
figurate, nei bei fregi a colori o nei tessuti trapunti di seta e d’oro. Il
risultato, nel suo insieme mirabile, è quale solo l’Italia poteva dare, in
pochi anni. Le signore, che seguendo l’esempio della contessa Marcello, che fu
la prima, e imitando la contessa Lina Cavazza, che è fra tutte, la vittoriosa,
cercarono lo operaie cui affidare l'esecuzione dei lavori che volevano far
rinascere, videro operarsi il miracolo. Le antiche facoltà, appena sopite,
si risvegliarono pronte al primo richiamo: le mani non parvero nuove al
lavoro e impararono rapidamente quei punti, che furono già non solo il
pane, ma l’orgoglio delle ave lontane. Forse al prodigio concorse la gioia
che le umili donne provavano nell'opera non umile! Un esempio luminoso di
ciò lo abbiamo qui, in un cuscino, unico saggio, che manda la scuola
fondata in America, fra le emigrate italiane, dalla signorina Carolina
Amari. Partì la coraggiosa donna, nell’ inverno scorso, colla sua bella
idea, un gran corredo di cognizioni tecniche e di sani e siculi concetti artistici,
e con questo bagaglio, prezioso — e esente da dazio! — sbarcò a Nuova York
poco avanti Natale. Non è senza una certa trepidazione che dovette mettersi
a cercare in quel mondo doloroso, torbido, quasi pauroso dei nostri più
miseri emigranti, le donne che volessero, sapessero e potessero lavorare.
Insegnar loro, chi sa? a tener l’ago in mano: toglierle alla fabbrica, alla
strada, alla miseria, al peggio, col tenue mezzo di un lavoro delicato e
leggiadro — che là può essere largamente remunerativo — che le restituisca
in certo modo alla dignità di donne e di italiane! L’impresa era così
nobile come ardua. Di lì a pochi mesi il risultato finanziario si
riassumeva nella vendita dei lavori eseguiti in America per qualche
migliaio di dollari o il risultato morale in una folla di donne e di
fanciulle, che chiedono di essere ammesse alla scuola.
L’incendio
del 3 agosto ha distrutto la Mostra dell’Arte Decorativa Italiana e
Ungherese e andò in
fumo il settore espositivo delle Industrie Femminili
Italiane. Noi in queste pagine continueremo però a degnamente
illustrare le due riuscite esposizioni e come iniziamo la serie degli
articoli che interessano la Mostra dell’Arte Decorativa Italiana, così
diamo qui posto a questo scritto dovuto alla penna di una nostra valorosa
collaboratrice e già dettato quando il fuoco distrusse lo due splendide
mostre Italiana e Ungherese dell’Arte Decorativa.
La trionfatrice in questa mostra,
e non v’è chi non
lo riconosca, è l’Aemilia
Ars, che insegnò
qualcosa a tutte le minori
sorelle non foss’altro, a battezzarsi in
latino! — Que’ lavori,
in verità, si
chiamano, più modestamente e più
esattamente: Ricami su tela
a punto antico. È con
questo nome che
la contessa Lina
Cavazza mise i primi
saggi sotto la
protezione di quell Aemilia Ars, sorta
a Bologna qualche decennio fa, con
nobili o puri intenti
Ruskiniani. I bei mobili,
le ceramiche artistiche, gli
squisiti gioielli, in
cui Alfonso Rubiani
esprime qualche cosa della
sua anima, colla
nobiltà delle linee, colla poesia
e la grazia del
colore, si eseguiscono ancora per
le poche persone
che cercano la
bellezza e l’armonia
in ogni cosa
che le circonda. Ma l’Aemilia Ars è ormai rappresentata o celebrata dai ricami su
tela a punto antico. Due
artisti — che sono anche
uomini di gusto
squisito, — D’Andrade e Pogliaghi,
fra le più
belle cose della Mostra
di Milano mettono
alcuni saggi dell’Aemilia
Ars. Bel trionfo, per l'ago, il filo e le donne! E magnifico incitamento a far
bene, a far bello, con
coraggio, con pertinacia, con fede. So le persone che
amano sinceramente e efficacemente ciò
che è bello sono
poche, sono pochissime quelle
capaci di soddisfare a questa aspirazione; se
queste pochissime
cedono le armi ai
primi ostacoli, la
causa della bellezza è perduta! Perseverare bisogna: i sinceri trascineranno gli.... altri a
seguirli e il “ buon
gusto” trionferà in virtù
di quelli e di
questi, ma soprattutto di coloro
che l’ hanno coll’opera difeso
a viso aperto. L’Aemilia
Ars ha finito col trionfare, nei
suoi lavori femminili, in
ogni senso.
Finanziariamente, dà lavoro
a quasi un migliaio di operaie
e paga un decente
interesse ai suoi azionisti: moralmente, onora
l'industria nostra,
femminile e italiana sui
mercati e nelle esposizioni.
Una delle ragioni
del successo sta
nel modo con cui
i punti e i motivi tolti
in parte agli
antichi modelli — si riproducono esattamente le trine anche
dai quadri e dai
libri del cinquecento — sono adattati alle
nostre costumanze e agli
oggetti di uso
nostro. È cosi che
le più rinomate case
di moda di
Parigi e di Londra ricorrono a Bologna per
i più squisiti ornamenti delle loro
vesti dernier cri!
Nella piccola vetrina, che
raccoglie i più fini frammenti, è esposto un
saggio del vestito
completo, che è il maggior
lavoro compiuto fin
qui dall’Aemilia Ars. E’ tutto
in punto in
aria, su disegno di
Achille Casanova e fu
eseguito in due mesi
da sessantacinque operaie, fra
le più abili della
casa. Nella sua
dolce bianchezza, nella sua discreta e signorile ricchezza, la
bella veste fa pensare
al dono di
una fata, che
voglia avvolgere la sua
protetta in un
velo di fronde,
di fiori, di uccelli, per
mandarla a vincere, in
una gara di bellezza, tutte
le altre donne
vestite di sete, di
nastri, di rutilanti gioielli! ( Elisa Ricci)
Alcuni lavori
distrutti dall’incendio:
Abito eseguito dalla Società
“Aemilia Ars” nel 1905 interamente di merletto e senza cuciture per
la signora Marsaglia Balduino di Genova. Il progetto è dell’architetto
Carlo Rubbiani e del pittore Achille Casanova. Elisa Ricci lo descriveva
così: “Vi erano 15 sorta di uccelli differenti, fra fiori, frutti ed
ornati. Il bordo era formato da penne di pavone, tutte distaccate l’una
dall’altra, così da riuscir ricco e insieme leggero”.
Alcuni particolari
dell’abito
Le quattro stagioni, punto in aria. Disegno tratto dalla “Corona delle nobili et virtvose donne” di Cesare Vecellio
|
Punto in aria copiato da un ritratto di Frans Pourbus,
Palazzo Pitti, Firenze
|
|
|
Padiglione delle arti decorative italiane e
Rosa Genoni
Articolo di Elisa Ricci
Nel padiglione dell’Arte Decorativa Italiana la chincaglieria è quasi
del tutto esclusa e lo spazio concesso all’abbigliamento femminile
non esorbita. Se io
mi dovessi occupare
di tutta questa mostra
comincerei
dall’esposizione di Giovanni Beltrami, da
quella del Duomo,
dai lavori in ferro,
in bronzo. Non
dovendomi ococupare che delle
cose più esclusivamente muliebri
comincerò dai merletti
di Venezia, da
quelli di Cantù e dai
ricami in generale. Su questo
punto noi non dobbiamo
invidiare nessuno. I merletti di Venezia
non hanno neppure
d’uopo di lode. Le
vetrine di Jesurum
contengono dei tesori
(1).
Anche il
merletto di Cantù
è in continuo progresso.
Le riproduzioni di
merletti antichi esposte dallo Fabbriche
Riunite sono una
magnificenza. Il ricamo
in rilievo è in
grande onore an-che da
noi, tanto in
bianco che a colori.
Vi sono lavori su
disegni antichi e nuovi;
tovaglie, lenzuoli, coperte
da letto ornati
di trine e ricami stupendi. In
tutti i generi si
ammirano esecuzioni
squisite. Ho visto
certe donnine semplici aggirarsi come
in un sogno
tra questi capolavori dell’abilità femminile. Si
chiamano da lontano, s’interrogano e restano
lì immobili. Un giorno ne ho osservate
due che mi
hanno molto interessato.
Erano di
quelle poche, di quelle fedeli
al costume, che portano
ancora il velo
in capo, umili, sfiorite. Ferme
davanti ad un
vestito tutto ri- camato, guardavano con
occhi estatici. Esse non
pensavano alla fortunata che potrà indossare quel vestito, non invidiavano, ma da vere intelligenti conoscitrici ammiravano soltanto
il lavoro, o tutt’al più
invidiavano l’abilità della
ricamatrice.
È
notevole la mostra
della Società Anonima Cooperativa: Le industrie
femminili italiane. Questa società espone
un po’ di
tutto; ricami, mer- letti,
biancherie, tessuti, pitture
decorative, pergamene,
arazzi, lavori in
legno, in cuoio,
ceramiche. Molte cose buone
in ogni ramo.
Meriterebbe questa bella
mostra una lunga
particolare descrizione. Come
ho giù detto,
gli abiti da
signora mandati alle nostre
ditte stanno in
un giusto limite: piaciono e non annoiano; hanno tutti un carattere decorativo. I vestiti
non sono punto inferiori a quelli
dei grandi magazzini
di Parigi: alcuni hanno
forse la stessa
origine. Molte nostre sarte
fanno venire i modelli
confezionati dalla
capitale francese. Ciò
non ostante, la
linea è in generale meno
esagerata e più varia.
Si capisce
che questi abiti
devono essere portati da donne vive, naturali, non
fabbricate sopra un unico
modello. La signora Rosa
Genoni fa ancora
un passo innanzi. Geniale
e indipendente questa giovine sarta, che
s’ispira all’arte, merita
un sincero elogio; o più ancora
meriterebbe d’essere incoraggiata. La sua
idea è patriottica o artistica insieme. Ella
vorrebbe che le
signore italiane si liberassero una
buona volta dalla
schiavitù della moda francese
e seguissero piuttosto la
tradizione degli antichi costume ispirandosi ai quadric magistrali
dei nostri pittori.
Questa idea
non è assolutamente nuova; ma la signora
Genoni ignora certo
che altri abbiano tentato di
effettuarla molti anni
prima di lei. Molti anni! Era
nella primavera del
1868. Un uomo singolare, un
patriotta, il quale
aveva passato vari anni
della sua giovinezza nelle
carceri austriache, uno
spirito alto e bizzarro, concepì, in
quel tempo di
fervidi sogni, l’idea
della moda italiana, che liberasse
la donna d’Italia
da ogni servitù allo
straniero. Non bisogna dimenticare che in
Francia imperava Napoleone
III, il quale teneva schiava
Roma. I fatti di
Mentana erano appena avvenuti. Carlo Zambelli
del resto odiava ogni sorta
di schiavitù e avrebbe
voluto essere il liberatore di
tutta l’umanità. Un
giorno sognò di liberare i produttori, i piccoli produttori specialmente, dal parassitismo commerciale e istituì una Esposizione campinonaria permanente che egli
dirigeva. I produttori mandavano
a lui i campioni dei loro
prodotti ed i consummatori andavano là
a scegliere la merce,
a fare l’ordi- nazione,
realizzando sensibili risparmi.
La cosa, naturalmente,
durò con fatica
alcuni anni e sfumò. Quando gli
venne l’ idea della
moda italiana, trovò subito
un giovine utopista,
pittore, che accettò con
entusiasmo l’ incarico di
disegnare i figurini.
Il primo
numero della “Moda Italiana” usci il
3 maggio 1868. Il
primo figurino era
per donna. Si abolivano
subito gli orecchini
per togliere la barbarie
degli orecchi forati.
Il secondo figurino, per
uomo, uscì il
21 maggio. Portava la camicia
senza colletto inamidato, chiusa
dal semplice cinturino con
due bottoni gemelli,
come nel costumo sardo. Così
si aboliva la cravatta, simbolo di
strozzatura. I
bottoncini potevano es-sere in oro,
in brillanti, come
diceva la spiegazione, poiché la
Moda italiana non
faceva guerra
all’eleganza, anzi voleva
raffinarla, dan- dolo un carattere
nazionale e pittoresco. Non
si trattava per altro
di ristabilire i costumi, nè
nazionali, nè regionali, nè,
tanto peggio, di
classe. Carlo Zambelli, che
odiava ogni livrea
e avrebbe soppresso volentieri ogni
uniforme, non poteva sognarsi di
richiamare in vita
i costumi, che per noi
non possono essere
altro che mascherate. Egli conosceva
troppo bene il
valore sociale ed igienico della
moda. E voleva la
moda ispirata al carattere
nazionale, al senso
estetico, alle prescrizioni dell’igiene. Como
vuole appunto la
signora Genoni.
Ma il
poveretto non ebbe
lieta sorte. La
Moda Italiana, dopo
cinque numeri, avendo
pubblicati cinque
figurini, sospeso il
sesto al pittore, per crisi
fnanziaria del giornale,
e addio. Nessuno se ne
occupò.
Auguro alla
signora Rosa Genoni
miglior fortuna. La merita,
perchè la sua
idea è bella e l’iniziativa coraggiosa. Ella
ha gusto e tatto: gli abiti
esposti nella sua
vetrina lo dimostrano. Chissà, il
successo potrebbe arriderlo. I tempi sono mutati.
L’Italia di adesso
non è più la
ti- mida giovanotta del 1868.
E non più esiste
in Francia una Eugenia
Bonaparte che imponga
le sue lussuose e brillanti fantasie
a tutto il mondo femminile. La
moda che noi
seguiamo adesso la creano
i grandi sarti ; e le
loro creazioni sono
lanciate da donne.... senza
nome. Le signore
italiane potrebbero ribellarsi. E veramente un
principio di ribellione si
fa notare. Già
da qualche anno si
è decretata, non so
da qual tribunale, col
cosenso di molti giornali
di mode, la
morte delle camicette; e le
camicette trionfano sempre.
Negli anni scorsi sì
sono fatti tutti
i tentativi per ritornare alle gonne
gonfie, alle crinolities: forse vi
erano delle ditte
che ne tenevano
in riserva nei vecchi
fondi e tentavano di
smerciarlo, ma lo sforzo
fu inutile; lo
gonne piatte imperano: anche se
lo fanno a crespe,
a pieghe, le schiacciano bene perchè
non ingrossino troppo.
Solo le trasformazioni delle
maniche non trovano
opposizione. Una signora che
si rispetti non
oserebbe uscire con le
maniche gonfie al
basso quando il figurino
porta il gonfio
in alto e viceversa.
Se quest’inverno c’imporranno, come sembra, le maniche
che non passino
il gomito, avremo.... la rassegnazione di
portarle?...Chissà!
Speriamo che
la signora Genoni
si metta d’accordo con le
sue college.
Come ho
giù detto, gli
abiti da signora
mandati dalle nostre ditte stanno in un giusto limite: piacciono e non annoiano; hanno
tutti un carattere decorativo. I vestiti non sono punto inferiori a quelli
dei grandi magazzini
di Parigi: alcuni hanno
forse la stessa
origine. Molte nostre sarte
fanno venire i modelli
confezionati dalla capitale francese. Ciò nonostante, la
linea è in generale meno
esagerata e più varia. Si
capisce che questi
abiti devono essere
portati da donne vive,
naturali, non fabbricate sopra un
unico modello.
La signora
Rosa Genoni fa
ancora un passo innanzi. Geniale e indipendente questa
giovine sarta, che s’ispira
all’arte, merita un sincero elogio ;più
ancora meriterebbe d’essere
incoraggiata. La sua idea è
patriottica o artistica
insieme. Ella vorrebbe
che le signore
italiano si liberassero una
buona volta dalla
schiavitù della moda francese
e seguissero piuttosto la
tradizione degli antichi costumi,
ispirandosi ai quadri magistrali dei
nostri pittori.
Questa idea
non è assolutamente nuova; ma la signora Genoni ignora certo che altri abbiano tentato di
effettuarla molti anni
prima di lei. Molti anni! Era
nella primavera del
1868. Un uomo singolare, un
patriotta, il quale
aveva passato vari anni
della sua giovinezza nelle
carceri austriache, uno spirito alto e bizzarro, concepì, in quel
tempo di fervidi
sogni, l’idea della
moda italiana, liberasse
la donna d’Italia
da ogni servitù allo
straniero. Non bisogna
dimenticare che in Francia
imperava Napoleone III,
il quale teneva schiava
Roma. I fatti di
Mentana erano appena avvenuti.
Carlo Zambelli del
resto odiava ogni sorta di schiavitù e avrebbe
voluto essere il liberatore di
tutta l’umanità. Un
giorno so- gnò di liberare
i produttori, i piccoli produttori specialmente, dal
parassitismo commerciale e istituì una Esposizione campinonaria permanente che egli
dirigeva. I produttori mandavano
a lui i campioni dei loro
prodotti ed i consumatori andavano là a scegliere la merce, a fare l’ordi- nazione, realizzando sensibili
risparmi. La cosa, naturalmente, durò
con fatica alcuni
anni e sfumò. Quando gli
venne l’idea della
moda italiana, trovò subito
un giovine utopista,
pittore, che accettò con
entusiasmo l’ incarico di
disegnare i figurini.
Il primo
numero della Moda italiana usci il
3 maggio 1868. Il
primo figurino era
per donna. Si abolivano
subito gli orecchini
per to- gliere la barbarie
degli orecchi forati.
Il secondo figurino, per
uomo, uscì il
21 maggio. Portava la camicia senza
colletto inamidato, chiusa
dal semplice cinturino
con due bottoni
gemelli, corno nel costumo
sardo. Così si aboliva la cravatta, simbolo di strozzatura. I bottoncini potevano essere in oro,
in brillanti, come
diceva la spiegazione, poiché la
Moda italiana non faceva
guerra all’eleganza, anzi voleva
raffinarla, dandolo un
carattere nazionale e pittoresco. Non
si trattava per altro
di ristabilire i costumi, nè
nazionali, nè regionali, nè,
tanto peggio, di classe.
Carlo Zambelli, che
odiava ogni livrea
e avrebbe soppresso
volentieri ogni nniforme,
non poteva sognarsi di
richiamare in vita
i costumi, ohe per noi
non possono essere
altro che mascherate. Egli conosceva
troppo bene il
valore sociale ed igienico della
moda. E voleva la
moda ispirata al carattere
nazionale, al senso
estetico, alla prescrizioni dell’igiene. Como
vuole appunto la
signora Genoni.
Ma il
poveretto non ebbe
lieta sorte. La Moda
italiana, dopo cinque
numeri, avendo pubblicati cinque figurini,
sospeso il sesto
al pittore, per crisi
fnanziaria del giornale,
e addio. Nessuno se ne
occupò.
Auguro alia
signora Rosa Genoni miglior
fortuna. La merita, perchè
la sua idea
è bella e l’iniziativa coraggiosa. Ella
ha gusto e tatto: gli abiti
esposti nella sua
vetrina lo dimostrano. Chissà, il
successo potrebbe arriderlo. I tempi sono mutati.
L’Italia di adesso
non è più la
ti- mida giovanotta del 1868.
E non più esiste
in Francia una Eugenia
Bonaparte che imponga
le sue lussuose e brillanti fantasie
a tutto il mondo femminile. La
moda che noi
seguiamo adesso la creano i grandi sarti ;e le
loro creazioni sono
lanciate da donne.... senza
nome. Le signore
italiane potrebbero
ribellarsi. F veramente un
principio di ribellione si
fa notare. Già
da qualche anno si
è decretata, non so
da qual tribunale, col
con- senso di molti giornali
di mode, la
morto delle camicette; e le
camicette trionfano sempi’e.
Negli anni scorsi sì
sono fatti tutti
i tentativi per ri- tornare alle gonne
gonfie, alle crinolities: forse vi
erano delle ditte
che ne tenevano
in riserva nei vecchi
fondi e tentavano di
smerciarlo, ma lo sforzo
fu inutile; le
gonne piatte imperano: anche se
lo fanno a crespe,
a pieghe, le schiacciano bene perchè
non ingrossino troippo.
Solo le trasformazioni delle
maniche non trovano
opposizione. Una signora che
si rispetti non
oserebbe uscire con le
maniche gonfie al
basso quando il figurino
porta il gonfio
in alto e viceversa.
Se quest’inverno c’imporranno, come
sembra, le maniche che
non passino il
gomito, avremo.... la rassegnazione di
portarle?...
Chissà!
Speriamo che
la signora Genoni
si metta d’accordo con le
sue colleghe (isolatamente non
è facile vincere) e che, viribus unitis, ci prepari bei modelli d’inverno artistici,
comodi e razionali sopra tutto.
(1)Tesori che
non esistono più!
Io ho scritto
questo cenno la vigilia
della catastrofe: il mio
cuore si gonfia d’amarezza nel
rileggerlo per correggere le
bozze. Mi sembra di avere
visto poco, di
non avere detto
che una minima parte
del mio pensiero.
Ah! Perchè la
mia parola non può
far rivivere ciò
che è scomparso.
|
Comitato organizzativo della mostra
Duchessa Maria Anna
Visconti di Modrone Gropallo, Presidente della Mostra dei Lavori Femminili
|
Donna Remigia
Ponti-Spitaleri, presidente effettiva del comitato d’onore delle signore
milanesi per la mostra dei Lavori femminili
|
Contessa
Antonia Suardi Ponti, presidente
della commissione esecutiva per la mostra dei Lavori Femminili
La
contessa Antonia Ponti Suardi (1860 -1938) è stata una nobildonna italiana, una delle principali
sostenitrici delle Industrie Femminili Italiane (1903) che trascorse una
vita d’impegno nella ricerca e nella divulgazione delle raffinate arti del
ricamo e del merletto.
|
La regina Margherita in visita
all’Esposizione, 18 Giugno 1906
|
Il
re e la regina al thè d’onore offerto nell’esposizione delle dame nel
padiglione dell’Arte Decorativa.
|
Mercoledì 20
giugno, nella Sala
delle Industrie
Femminili, annessa alla
Galleria dell’Arte Decorativa, un gentile omaggio fu
fatto alla regina Margherita
da un gran
numero di getildonne milanesi. Le venne offerto un
thè intimo, al quale ha partecipato quanto di più eletto conta la
migliore nostra società. Erano fra
le moderatrici della
riunione la duchessa Visconti di
Modrone e la marchesa Remigia
Ponti, dame d'onore
della regina Elena, quali presidenti, onoraria
l’una, effettiva l’altra, della sezione di Milano della Cooperativa nazionale delle industrie
femminili; la contessa Suardi Ponti, che fu la benemerita
organizzatrice della Mostra di
quelle industrie a Milano, ed
altre signore.
Oltre la
Regina Madre, era
presente la principessa Letizia.
Presenziavano
pure il prof. Cavenaghi, il conte Oldofredi, gentiluomo di Corte, e il conte
Cicogna.
La Regina si intrattenne affabilmente un po’
con tutti, mentre la contessa
Suardi le presentò uno splendido mazzo di fiori e le furono pure offerti alcuni lavori di gran pregio dell’Aemilìa Ars.^
|
La regina
Margherita e l’incontro con la principessa Letizia nel padiglione delle
Arti Decorative
|
Il Corriere della
Sera dedica la copertina alla regina Margherita con la principessa Letizia
che visitano il padiglione delle Arti Decorative.
|
Regina Margherita
al concorso delle mongolfiere, Expo-Milano, 1906. La sovrana indossa tutti
gli accessori di moda nei primi del ‘900:
ombrellino, ventaglio, borsetta
|
|
La regina
Margherita di Savoia in visita alla Mostra
|
|
|